Capo Pecora, plastica

 Gonnosfanadiga - Arbus - L'amore di Sandro Pinna per la "sua" caletta, assediata dalle microplastiche

"Non si sente frustrato nel rivedere lo stesso tratto di costa che ha ripulito con cura, magari dopo una mareggiata, nuovamente ricolmo di plastica"?
Alla domanda, posta in tono volutamente provocatorio, corrisponde una risposta di quelle che non ammettono replica: «Intanto quella che ho portato via non c'è più, e poi ripulire questa caletta mi fa stare bene».

A dirlo è Sandro Pinna, sessantunenne di Gonnosfanadiga, legato a doppio filo a un tratto di costa marina di struggente bellezza, ma che sembra disegnata apposta per raccogliere i più disparati rifiuti marini, per via della sua conformazione, una sorta di imbuto, dove le mareggiate depositano il loro carico di plastica. Multicolore e di ogni tipo, con interi oggetti e molti pezzi sparsi e dissolti dall'azione della luce solare e dalla macinazione di onde e rocce. Poi frammenti minuscoli e una quantità impressionante di microplastiche.

Siamo nei paraggi del promontorio di Capo Pecora (Arbus), in una delle calette che affidano all'acqua del mare le loro estremità di granito. Pinna ha adottato questo angolo di natura marina come suo luogo del cuore, e ci va ogni volta che può, partendo da Gonnosfanadiga e percorrendo i 38 chilometri che lo dividono dal suo paradiso. Non però da semplice turista balneare: quella caletta è per lui una creatura da proteggere e ripulire dalla plastica che vi si accumula, palmo a palmo e roccia per roccia.


La "missione"
Perché caricarsi sulle spalle un fardello simile, lo spiega lo stesso Pinna: «Sento di dovere restituire alla natura parte di ciò che ho ricevuto e di cui spero di godere ancora per molti anni, compiendo un piccolo gesto per rimediare ai disastri ambientali creati da noi ospiti indegni di questo meraviglioso paradiso terrestre».

Capo Pecora, plastica
Capo Pecora, plastica
Disastro che è ben percepibile: basta soffermarsi a esaminare quanto c'è accanto e sotto le bellissime rocce levigate per secoli dal mare e trasformate in grandi uova di granito. Le mareggiate rigurgitano tra le pietre tondeggianti incredibili quantità di plastica, il gioco delle correnti le deposita nei loro anfratti e le conficca negli interstizi, pronto a riprendersele alla prima occasione per trascinarle in qualche altra spiaggia o al largo, in un incessante viavai.

Capo Pecora, plastica
Pezzi di plastica della provenienza più disparata, di età diverse e consistenza più o meno solide, che ormai da ventiquattro anni Sandro Pinna preleva da quella caletta con la cura di un innamorato.

L'ultimo "ritrovato"
L'aspetto tuttavia che ha lasciato Sandro Pinna non sempre appagato per il suo lavoro non è tanto il fatto di ritrovare nuova plastica laddove l'aveva tolta, ma di non essere finora riuscito a ripulire la spiaggia rocciosa dai frammenti più piccoli e dalle plastiche primarie, i granuli utilizzati in industria per creare, attraverso la loro fusione e modellazione i più disparati prodotti.

Succede che queste sferule, piccolissime, durante le varie fasi di trasporto e lavorazione, vengano rilasciate nell'ambiente, finendo poi nei corsi d'acqua e nel mare. Nei mari e negli oceani ci finiscono anche durante i trasporti marittimi, in seguito alla perdita accidentale di container da parte delle navi cargo: immensi carichi di micropellet che poi si accumulano lungo le coste e vengono facilmente scambiati per cibo da pesci e uccelli marini, entrando a fare parte della loro (e della nostra) catena alimentare.

«Il mio cruccio - ha spiegato Pinna - era quello di non riuscire a levare anche questi frammenti e per anni ho studiato un modo per riuscirvi. Ora penso di avere messo a punto una tecnica efficace, e chissà che non possa essere riproposta su scala più ampia per ottenere risultati apprezzabili per aree di costa più vaste».

La nuova fase del lavoro di ripulitura che va oltre la raccolta dei pezzi più macroscopici ed evidenti, è effettuata da Pinna con l'ausilio di un aspiracenere a batteria, in grado di raccattare i frammenti più piccoli e leggeri di sostanza plastica.

Capo Pecora, plastica


Aspirando direttamente dalla sabbia, anche sotto le rocce, palmo a palmo si riescono a raccogliere le parti di plastica frantumata e i granuli di plastica primaria presenti in quantità incredibilmente elevata. Il risultato di quanto aspirato, viene poi passato in un grande setaccio (ricavato dalla rete di protezione di un vecchio ventilatore, a proposito di recupero), e fatto precipitare in una vaschetta colma d'acqua: le parti in plastica rimangono così a galla e facili da asportare, già separate dal resto, che finisce sul fondo della vaschetta e sarà restituito alla spiaggia rocciosa.

Capo Pecora, plastica


Capo Pecora, plastica
Capo Pecora, plastica

L'appello
«Non mi piace vantarmi di quello che faccio, il mio vuole solo essere un piccolo stimolo affinché anche altre persone possano prendere in adozione una spiaggia o una qualsiasi altra porzione di territorio, e contribuire così a liberare il mondo dalla plastica, perché la situazione è davvero drammatica», con queste parole Sandro Pinna sembra quasi volersi scusare per lo spazio informativo occupato, ma è proprio da questi piccoli esempi che si può guardare con maggiore ottimismo al futuro e continuare a nutrire la speranza di un mondo migliore.

Anche se può sembrare come vuotare il mare con un cucchiaino: basta ricordarsi, intanto, che la plastica rimossa non c'è più e poi che pulire l'ambiente fa stare meglio.
 
Marco Cazzaniga (Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.) © Riproduzione riservata

Immagini e video dell'articolo: diversi momenti di una giornata di pulizia della caletta "di Sandro Pinna" a Capo Pecora

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